mercoledì 22 gennaio 2014

Giù la testa!


Nel bel mezzo del deserto messicano un piagnucoloso pezzente ferma una strana dirigenza che sembra il Grand Hotel.
Lo straccione che si chiama Juan Miranda, implora una passaggio.
I ricchi viandanti, prima di prenderlo a bordo, lo deridono e l’umiliano.
Più avanti essi scopriranno a loro spese che è il capo di una pericolosa banda di tagliagole a conduzione familiare.
Infatti, di lì a poco la carrozza è presa d’assalto da un vecchietto, il padre di Miranda, e da un branco di ragazzini, i figli, tutti armati fino ai denti.
Sterminati i passeggeri e incassato il bottino, la gang riceve la visita di un’apparizione surreale: un turista irlandese, vestito alla Sherlock Holmes, sfreccia su una moto tirando candelotti di dinamite.
Il suo nome è Sean Mallory, e di professione fa il rivoluzionario.
Per il rubagalline Juan Miranda, che sogna da una vita di espugnare la banca più ricca del Messico è l’uomo del destino.
Con le buone e con le cattive il messicano riesce a convincere l’irlandese ad allearsi con lui.
Giunti a Mesa Verde, Sean Mallory e Juan Miranda si imbattono in un gruppo di sostenitori di Pancho Villa, capeggiati da un sega ossa dai modi colti e garbati chiamato il dottor Villega.
In mezzo a quei cospiratori, l’irlandese sembra molto a suo agio, mentre il messicano fa la figura del buzzurro.
Tuttavia, dal momento che l’obiettivo di tutti è il medesimo, la Famosa banca, Miranda non sembra soffrire di particolari complessi d’inferiorità.
Nel fatidico giorno della rapina, Sean Mallory, Juan Miranda e famiglia e i cospiratori locali riducono Mesa Verde ad un cumulo di macerie.
Ma quando Miranda si cala eccitato nei sotterranei della banca, anziché il sospirato tesoro trova centinaia di prigionieri politici sporchi e affamati che lo travolgono nell’ansia di riacquistare la libertà.
Sono loro il bottino dell’impresa.
Il denaro non esiste.
Juan Miranda è furibondo.
Vuole la pelle di Mallory.
Ma l’irlandese lo riduce all’impotenza chiamandolo eroe.
Da questo momento in poi, Sean Mallory e Juan Miranda attraversano il Messico in lungo e in largo sparando all’impazzata contro le bieche truppe governative.
Lungo il cammino, Miranda perde tutta la sua famiglia, sterminata dall’esercito durante una rappresaglia.
E alla fine, l’ex bandito di strada rimane solo, con l’amico rivoluzionario irlandese che gli spira tra le braccia lasciandogli in eredità la sua esaltante e disperata missione di giustizia.
"Giù la testa!", film del 1971, è l’ultimo film western di Leone, ma in questo caso più che mai la definizione di western è un azzardo nell’azzardo.
Sergio Leone ha impostato tutta la sua carriera all’insegna dell’originalità.
Nella sua arbitraria reinvenzione mediterranea del western, il regista italiano si era concesso innumerevoli licenze poetiche.
Ebbene, "Giù la testa!" le supera tutte.
Questo lungometraggio – che non riscosse all’epoca il successo dei precedenti western – è, secondo alcuni un pasticcio ideologico verboso e filosofeggiante, mentre altri si spingono a considerarlo il miglior film di Leone.
I detrattori storsero la bocca fin dai titoli di testa che ammiccavano al sessantotto.
La pellicola si apre infatti con una raffica di citazioni di Mao Tse Tung.
Molti le ritennero, a seconda dei punti di vista, ruffiane o irriverenti. Coloro che giudicarono negativamente l'opera si lamentarono del velleitarismo ideologico, della lunghezza (due ore e mezza), e dell’interpretazione istrionica di Rod Steiger nei panni di Juan Miranda.
Alla fine questi ultimi salvarono soltanto le musiche di Ennio Morricone, il cui celeberrimo motivetto "Sean Sean" era finito in vetta alla hit parade dei dischi di quell’anno.
Gli altri, gli estimatori, valutarono "Giù la testa!" un piccolo capolavoro di pop art, apprezzando la varietà dei concetti e degli oggetti, veri e propri feticci, che affollano il film come un bazar: la motocicletta di Sean Mallory, il carroarmato ante litteram dell’esercito messicano, la testata del giornale governativo che si chiama “El Imparcial”, l’interno della carrozza inverosimilmente spazioso e arredato come un salotto viennese e le stesse citazioni di Mao.
Inoltre, alcuni esponenti della sinistra parlamentare in quegli anni elessero "Giù la testa!" come “Film della loro vita”.
Detrattori ed estimatori di un tempo però avevano torto entrambe.
Innanzi tutto, se ora c’è una cosa che risulta veramente insopportabile, è proprio, una volta tanto, la musica sdolcinata di Ennio Morricone, compresa la canzoncina "Sean Sean", che tanto successo conobbe all’epoca.
Anche perché le musiche sono terribilmente invadenti, addirittura protagoniste nei muti flashback al rallentatore che raccontano l’improbabile gioventù spensierata e amorosa di Sean Mallory.
Improbabile se non altro perché l’attore James Coburn, che interpreta il rivoluzionario irlandese, non vi appare ringiovanito nemmeno di una ruga.
Quanto alla gigioneria di Rod Steiger, Juan Miranda, occorrerà ricordare che la recitazione sopra le righe è sempre stata la sua specialità, e ciò non gli ha impedito di vincere qualche anno prima un Oscar a furor di popolo per "L’uomo del banco dei pegni" di Sidney Lumet.
Del resto, Steiger qui è ampiamente giustificato: un ruba galline messicano doveva pur avere una sana e robusta dose di ingenuità per diventare un eroe rivoluzionario, ed è peraltro noto che i libri di storia di casi del genere ne tramandano a dozzine.
Spendiamo ancora una parola sul cast, per segnalare i tanti bravi attori di teatro tra cui: Romolo Valli, Maria Monti, Franco Graziosi che soltanto Leone ha saputo valorizzare sul grande schermo.
"Giù la testa!" è e resta uno dei film più spettacolari del cinema italiano.
Sul piano del puro virtuosismo registico forse questo è davvero il miglior film di Sergio Leone.
Perché qui Leone dimostra di essere un dei pochi registi al mondo in grado di muovere masse imponenti di comparse e, allo stesso tempo, di valorizzare i più piccoli dettagli, alternando totali grandiosi a primi piani inquietanti.
Ma non dimentichiamo che "Giù la testa!" è soprattutto un capolavoro del grande artigianato cinematografico italiano ormai in via d’estinzione.
Sceneggiatori del calibro di Sergio Donati e di Luciano Vincenzoni, capaci di inserire senza paura in un genere come il western tutto ciò che agitava la società italiana nel 1971, non ne nascono purtroppo più.
E così il direttore della fotografia Giuseppe Ruzzolini, che con Pier Paolo Pasolini faceva film completamente diversi o il responsabile degli effetti speciali rudimentali ma efficaci Antonio Margheriti.
In questo film poco ma sicuro, vola la fantasia e volano anche le due ore e mezza.

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